
ISBN Polvere di ferro
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«Dalla finestra che dà sulla strada guardo il lento torrente di vita umana che giorno e notte si dirige strascicando verso i grandi stabilimenti. Masse di uomini con smorte facce ubriache curve verso terra, ravvivate qua e là dal dolore o dalla furbizia; la pelle, i muscoli, la carne insudiciati dal fumo e dalle ceneri; ricurvi tutta la notte sopra calderoni di metallo bollenti e di giorno rintanati in covi di ubriachezza e di infamia; respirando dalla nascita fino alla morte un’aria satura di nebbia, grasso e fuliggine, un insulto all’anima e al corpo».
Siamo nel 1861 a Wheeling, West Virginia, al confine fra Sud e Nord, sull’orlo della guerra civile. Le «oscure sataniche officine» della rivoluzione industriale sono un territorio ancora quasi inesplorato dalla letteratura, e Rebecca Harding Davis – all’epoca sconosciuta scrittrice di provincia – si addentra, con il suo racconto Vita nelle ferriere, nella luce rossa di questa città di fabbriche che pongono una domanda inespressa e terribile: che cos’è questo mondo nuovo? È davvero degna di chiamarsi «vita», quella che si agita in quei luoghi? Al centro della narrazione c’è Hugh Wolfe, operaio, spossato dalla fatica e avvilito dall’ignoranza, che ruba dalla fabbrica gli scarti della lavorazione del ferro per dar vita a un’opera d’arte: le membra possenti di una donna abbrutita dalla fatica, ma pervasa da una brama indistinta, le mani protese ad afferrare il vuoto, la bocca spalancata in un grido di desiderio senza suono. A raccontare la storia è una donna, reclusa in casa, che riconosce nella piccola scultura e nel suo disperato creatore non solo la testimonianza di una condizione operaia ancora invisibile, ma anche la metafora di altre esclusioni, a partire da quella femminile; il grido muto della statua è anche l’anelito di espressione, di creazione, di libertà della narratrice, nonché dell’autrice, in un’età soffocante di «domesticità» idealizzata. Ne viene fuori un capolavoro scoperto un secolo più tardi dalla critica e dalla ricerca femminista, riproposto qui in una nuova traduzione insieme ad altri due racconti (Storia di una moglie e Anne) in cui Rebecca Harding Davis esplora una volta di più l’aspirazione femminile alla libertà, alla bellezza, all’arte: un’aspirazione mai sopita e sempre frustrata. Come osserva Alessandro Portelli nella sua introduzione, «la narratrice ci sfida a inoltrarci in questa landa sconosciuta, senza troppo preoccuparci se nel contatto sporchiamo i nostri bei vestiti e contaminiamo i nostri elevati pensieri. Di questo parlano i racconti: non solo della “vita” nelle ferriere, ma della nostra capacità di vederla, della disponibilità di noi filantropi dilettanti, ipocriti lettori, almeno a provarci».
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